
Certe storie sono luoghi dell'anima e raccontano di noi... Some stories are soul places and talk about us...
MASTRO FAVOLA
Antonio Strinna
Mezzo uomo e mezzo bambino, con uno sguardo visionario, questo è Mastro Favola.
E questa è la sua storia. Una storia con una sola certezza. Quando nasci vento e ne sei consapevole – dice Mastro Favola – non puoi che essere vento, per tutta la vita. Il vento immaginifico che tutto muove, tutto trasforma, e non lascia niente così com'è. Perché niente, neppure per un giorno, è mai lo stesso dentro il tuo essere. E allora lasci che il vento, il tuo vento, soffi liberamente e ti porti dove vuole, come vuole. Fino al mare dell'ignoto, senza regole né confini.
Capitolo 1
Un corteo di commedianti del dovere scortava distrattamente la bara di Mastro Favola. Non era affatto la compagnia che lui avrebbe voluto, della sua ero rimasto soltanto io, suo allievo proprio come della vita. Intanto, sempre più incuriosito e con un sorriso di pena osservavo quegli anonimi figuranti sempre più stretti fra serpenti di vie senza cielo e senza respiro. Di sicuro non poteva sfuggirmi la loro divertita leggerezza. Incurante dell'ora sacra dell'addio, c'era chi faceva dell'ironia, chi rideva senza motivo e chi si esercitava sui loro vicini con giudizi sferzanti, spesso ridicoli. E c'era anche chi - forse sentendo risuonare i passi della morte - aggiornava il conto dei coetanei già passati sulla sponda dell'ignoto.
Com'era ovvio, un posto particolare veniva riservato al mio perduto maestro che se ne stava indifferente dentro la sua bara ondeggiante. Che poi fosse davvero perduto, definitivamente, non volevo proprio crederlo, ancora meno potevo temere che lui lo volesse. Sapeva bene quanto fossi legato a lui, al suo sguardo di storie e di favole, e quanto della sua vita fosse ormai confusa alla mia. Mi riusciva persino facile vedere ancora il suo volto sereno e insieme buffo, quello di sempre, il suo sorriso sornione, mentre era intento a far di conto altrove, con ben altri interlocutori, come a dire che nessuno fra quelli del corteo poteva minimamente calcolare il senso della sua esistenza, anche perché gli rimaneva molto da vivere, senza misura e in modi sconosciuti ai più.
Mastro Favola, questo era per tutti il suo nome, già da diversi decenni, da quando faceva il bibliotecario in città e aveva attirato a sé molti bambini e ragazzi, tutti contagiati dalla sua stessa magia: scrivere favole. Ma anche andare a cercarle, dal paese alle campagne, dal castello al canyon, sino al mulino ad acqua, dopo averle scoperte dentro di loro. Anzi, ogni favola nasceva proprio lì, nel loro palpitante immaginario. Era una magia che significava avere nuovi occhi e nuovo cuore, con i quali potevano scoprire ovunque segreti inaspettati. Anche io ero fra quei bambini, con tutta la mia innocenza, consapevole di essere un privilegiato, felice di poter soddisfare la sete inesauribile della mia fantasia, molto simile a quella che mi faceva incontrare, e poi confondere, con gran parte delle creature, animali e vegetali, anche con quelle invisibili.
Ma soltanto io ho saputo perseverare, sino a oggi, senza timore di smarrirmi nelle sue sterminate praterie prive di strade, muri e confini. Mai una volta che abbia avuto paura o dubbi; soprattutto, non ho mai rinunciato al fuoco dell'immaginazione, neanche quando mi scombinava il cuore e mi trasformava in un luogo parlante, in qualche imprevedibile creatura o in ardite avventure. Come potevo rinunciarvi, del resto, dopo aver scoperto che era l'unico potere in mio possesso? Il cui solo limite dipendeva unicamente dalla mia aspirazione di andare dentro e oltre me stesso. Molti dei miei compagni, sorpresi dalle loro stesse imprevedibili scoperte, uno dopo l'altro si sono lasciati catturare dalla paura e hanno fatto ritorno alle rassicuranti gabbie famigliari, dove poi sono stati ben plasmati, sino a farli diventare adulti e anche disciplinati soldatini. Chissà quante volte se ne sono pentiti e lo hanno ben nascosto o camuffato.
E ora, al funerale, c'era almeno qualcuno di questi bambini, ormai adulti? Ne ho visto due che parlottavano fra loro, in fondo al corteo. A tratti se ne stavano staccati, distanti una decina di metri dai commedianti del dovere. Che si vergognassero? Eppure qualcosa li aveva portati lì. C'era forse un filo fra loro, sia pure invisibile, che aveva resistito per tutto questo tempo? Un filo di nostalgia o forse di pentimento? Certo è che non mi hanno mai rivolto lo sguardo, come d'altronde gli altri. Segno che vedevamo me e Mastro Favola accomunati dalla stessa bizzarra diversità.
Mastro Favola, nessun nome poteva essere per lui più coerente, persino più gratificante, e poi significava avere un posto nella memoria del paese, in fondo riservata a pochissimi, proprio con il titolo di Mastro Favola. Del resto, corrispondeva al suo modo di attraversare la vita, i sentimenti, il paese, la campagna e qualunque altro luogo. Ma per noi era, più concretamente, un fabbricante di favole. Colui che aveva fatto di noi, finché lo abbiamo seguito, altrettanti fabbricanti di favole. Intanto, forse disturbati nella loro monotona andatura, più di uno mi vedeva come certi cani che a volte si infilano nei cortei e nelle processioni: smarrito, confuso e anche un po' impazzito. Io invece mi sentivo più simile a un pesce che, a un tratto, si ritrova fra le correnti di un fiume agitato che non perde occasione per metterlo in difficoltà e riesce persino a farlo sentire straniero in casa tua.
Qualcuno dei partecipanti aveva lo sguardo triste, non so se veramente sincero o finto; quello dei due figli era più assente che rassegnato, del resto Mastro Favola era vicino ai novant'anni e i loro rapporti, soprattutto dopo la morte della moglie, si erano ridotti a una o due telefonate all'anno, ogni volta segnate dai soliti come stai che non attendono risposta.
Più passava il tempo, più il mio andirivieni poteva constatare che la maggior parte delle persone percorrevano quasi tutto il tragitto immersi nella palude dei ricordi, sempre più insidiosa, quasi fosse ineluttabile necessità. Come poteva essere che davanti al corteo c'era un uomo da accompagnare fino all'ultimo viaggio? Il più misterioso, il più arrischiato, da intraprendere senza trucchi né menzogne, soprattutto senza poter contare sui giochi mascherati della commedia personale. La morte è comunque una realtà alla quale ci opponiamo anche quando ce l'abbiamo davanti. Anche adesso, durante il tragitto, non era che un'ombra, una eventualità come tante, invisibile, così poteva essere ignorata nonostante si ergesse, ancora una volta, davanti ai nostri occhi.
Non c'era spazio per il silenzio e, nonostante l'acciottolato, neppure per il rumore dei passi. E le preghiere non erano che un continuo, anonimo mormorio; le loro ambizioni, come armi spuntate, non avrebbero potuto sfiorare il cielo neanche per caso. Figurarsi se qualcuno le avrebbe mai ascoltate, in quello e in qualunque altro funerale. D'altro canto, a che servono se non è il cuore a pregare? Ma poi davvero quelle preghiere dovevano salvare l'anima di Mastro Favola? Chissà mai che cosa c'era da salvare.
Tutto faceva pensare a una banale circostanza, come tante altre, di occasionale conver-sazione. In questo teatrino del lutto e dolore, sorridevano e chiacchieravano anche le finestre affacciate sulle vie, e ne avevano proprio bisogno; ad ogni funerale finalmente si sottraevano alla loro abituale, grigia solitudine. Quasi fosse una festa, all'improvviso i loro sguardi, finora sprofondati nell'immobilità, adesso riuscivano a farsi largo dentro l'inconsapevole sopravvivere di una umanità sonnolenta. Il che significava, se non altro, qualche minuto di ritorno alla vita. Quanto bastava per riemergere da loro dimenticatoio, collaudato da secoli, attraverso il quale, un giorno o l'altro, tutti dovevano passare, persino docilmente, prima di raggiungere quello definitivo.
Chissà se almeno un barlume della storia di Mastro Favola, un flebile barlume, comunque autentico, affiorava ora nelle loro menti almeno nel momento in cui la bara veniva tumulata e l'addio diveniva, anche visibilmente, senza ritorno. A me invece, vi prego di credermi, la storia di Mastro Favola mi appariva ancora nitida davanti agli occhi, a ogni passo, a ogni sguardo, la rivedevo in tutta la sua enigmatica rivelazione, di sconvolgente profondità, e intanto ero consapevole che avrebbe continuato ad apparirmi per chissà quanto tempo ancora. E non per gioco o nostalgia, ridotta a una nuvola informe, di passaggio. Sapevo bene che le sue apparizioni non si sarebbero mai separate da me. Quando mai sarebbe potuto accadere se proprio loro, già da molti anni, rendevano speciale la mia vita?
Altro che un pezzo qualunque della mia memoria, il più delle volte volubile e precaria! Avrei potute raccontare le sue apparizioni, senza preoccuparmi di confondere il giorno con la notte, come se vedessi e parlassi di me stesso. In fin dei conti, all'insaputa di tutti, non ero poi diverso da lui: mezzo uomo e mezzo bambino. Anche ora, lui con il suo corpo tumulato e io l'unico superstite del corteo, avevamo lo stesso spirito, ostinato e ribelle, e lo sguardo puntato nella medesima direzione. Tutt'e due abbiamo fatto ritorno cocciutamente alla sua casaccia in muratura e legno, senza dentro né fuori, come noi sopravvissuta; poco importava se non c'era più neanche uno sbuffo di sogno ad abitarla, dopo essere stata sfigurata dalla incomprensione e infine dall'indifferenza. Il nostro ritorno, anche dopo tanto tempo, non era che uno dei tanti.
Come vorrei che ce ne fossero ancora molti altri, mi dicevo, e intanto constatavo che la sua casaccia, dentro di me, non accennava affatto a invecchiare. Anzi, aveva il suo stesso sorriso. Il sole stava tramontando, è vero, il mare e l'orizzonte sembravano infatti aspettarlo come al solito; ma per Mastro Favola poteva anche darsi che invece stesse sorgendo, impaziente di dare nuove energie a tutte le creature. Così anche la sua vita, della quale sapeva bene che, in esseri diversi, non era la prima e non sarebbe stata neppure l'ultima. C'era ancora quanto mi bastava per ritornare al nostro tempo di favola e con la favola allo stupore della scoperta, alla nostra scalpitante immaginazione e al privilegio di vedere ciò che a tanti altri non era consentito.
Così, mi era persino facile ritrovarmi insieme ai bambini che, come me, hanno avuto la fortuna di conoscere Mastro Favola, sempre e soltanto nella sua rudimentale casaccia, senza tetto, eppure la reggia delle nostre favole. Specialmente la fortuna di non tornare mai alle oro case così come erano arrivati, ogni volta si portavano appresso sia lui che le sue favole, perciò trasformati sia nel cuore che nello sguardo, arditamente in viaggio altrove come qui. Eppure, lo sapevano bene - Mastro Favola li aveva avvertiti più volte - che cosa rischiavano tornando nelle loro famiglie, fra i compagni che non li avevano seguiti e dunque nulla potevano sapere delle loro escursioni oltre i soliti limiti. Ognuno di loro avrebbe rischiato, allora e soprattutto in futuro, di sentirsi dire che era mezzo uomo e mezzo bambino. Proprio come Mastro Favola.
A chi mai poteva importare, del resto, se dopo averlo frequentato si sentiva un poco più felice, sempre con lo stupore dentro gli occhi... L'importante era diventare adulto: vero o finto, felice o no, contava poco o niente. C'erano altre regole da seguire, uguali per tutti, dalle quali lasciarsi foggiare. Ecco perché era meglio frequentare Mastro Favola di nascosto, all'insaputa delle proprie famiglie, armati di coraggio e di fantasia. Segretamente o no, insoddisfatti della realtà quotidiana, appena potevano varcavano risoluti il suo spazio noioso e angusto, determinati a sconfiggere le sue incomprensibili barriere. Non avevano dubbi, e non ne avrebbero avuto almeno per alcuni anni, dove andavano loro non c'erano strade segnate da paletti, tanto meno regole fredde e vuote, soltanto Mastro Favola e i suoi viaggi sognanti. All'improvviso si sentivano protagonisti, capaci di dare alla luce nuove creature, esseri viventi che soltanto loro riuscivano a mettere al mondo.
Poi, inizi a non credere più ai sogni, neppure ai tuoi, e a tutte quelle creature che hai sempre amato, irrinunciabili, tutt'altro che semplici invenzioni. In realtà, erano prodigi straordinari dei tuoi giochi creatori. Così, senza rendertene conto, la tua vita fatalmente sbiadisce, un giorno dopo l'altro perde luce e colore. Qualcuno ti ha sparigliato furbescamente le carte e tu non te ne sei neppure accorto. Anzi, senza tanti scrupoli, te ne hanno messo in mano delle altre. Sei un uomo, ormai, tutto intero. E a te non rimane che conformarti agli altri. Del resto, l'arte dell'imma-ginazione, insegnata da Mastro Favola, era troppo misteriosa per non destare sospetti. Chissà, forse dentro c'era anche qualche forma di potere.
Tre di questi erano al funerale. Tutti puntualmente complici nel loro rumoroso chiacchierio. Da tempo duramente svezzati, si vedeva che avevano cambiato pelle e chissà che altro. Non erano più mezzi uomini e mezzi bambini, come me. A tratti li guardavo, di sfuggita, e ogni volta mi chiedevo se dentro di loro era rimasto qualcosa di Mastro Favola. Una pagliuzza di favola, una parola o un'immagine nascosta che con il passare del tempo poteva ridiventare la loro favola personale. E adesso, sepolto appena sotto il castello, davanti alla pianura e al mare di Sardegna, quale strada avrebbe preso lo spirito di Mastro Favola o, se preferite, quello di mezzo uomo e mezzo bambino? Il mare, sovrastato da un cielo terso, era anche quello del tempo, quello dell'infinito. Oppure i luoghi parlanti che aveva scoperto e frequentato insieme a noi. Perciò le strade che avrebbe potuto intraprendere erano infinite e nessuna prevedibile. Ma lui non si sarebbe mai spaventato.
Non per niente diceva che nella tomba di ogni uomo dovrebbe esserci scritto: Non qui, ma ovunque abbia speso anche una sola goccia della mia vita, lì potete trovarmi. Ora e sempre. Molto meglio delle date di nascita e di morte, che non significano niente e non appartengono all'anima.
Capitolo II
Arrivati al cimitero, ho assistito alla tumulazione con la sofferenza di chi non vuole proprio rassegnarsi alla separazione definitiva. Perciò, nonostante l'aria fredda di fine settembre iniziasse ad avvolgere le tombe, da vecchio amico incallito sono rimasto solo con Mastro Favola. Non mi riusciva proprio di andare via, di accettare questa spietata realtà, la sua violenza.
Soprattutto, non volevo vederlo partire, andare altrove, chissà dove. Al contrario, pensavo che avrebbe potuto intraprendere un nuovo viaggio, ancora una volta insieme a me. Nel tempo e nei luoghi che mi hanno fatto diventare come lui: mezzo uomo e mezzo bambino, certo più felice di tanti uomini.
.....continua .....

LUOGHI PARLANTI LABORATORIO PER RAGAZZI E BAMBINI
LUOGHI PARLANTI
LABORATORIO DI LETTURA E SCRITTURA CREATIVA
A cura di ANTONIO STRINNA - Associazione Culturale Badde Lontana
Il Laboratorio Luoghi Parlanti è incentrato sulla riscoperta dell'ambiente in quanto prima casa dell'uomo (Ecologia). Perciò contenitore della storia umana e della sua evoluzione nei secoli. E' la prima casa che, oggi più che mai, ha bisogno delle nostre cure, senza le quali siamo proprio noi a subirne le conseguenze, insieme al territorio, conseguenze sempre più spesso disastrose. Il progetto intende caratterizzarsi proponendo l'ambiente con alcuni luoghi specifici - la collina, il torrente, il bosco, il canyon, le falesie, il mulino, le chiese campestri e il castello - come attori principali e insieme voci narranti, in continuo rapporto fra di loro e con gli uomini. E sono sempre i luoghi a determinare il punto di vista degli eventi, quasi mai coincidente con quello umano, anche perché la narrazione è opera della fantasia e della creatività degli studenti, insomma sul loro potere di immaginazione.
Il Laboratorio Luoghi Parlanti, percorrendo un lungo arco temporale, si prefigge di trarre insegnamento dalla storia di questi luoghi e dalle relazioni che gli stessi hanno avuto con gli uomini, prilegiando gli aspetti e i momenti creativi e insieme formativi. Le attività culturali saranno indirizzate alla conoscenza dell'ambiente, della geomorfologia, della flora e della fauna, delle tradizioni e delle vicende umane, in particolare di quelle dei mulini e delle gualchiere di San Lorenzo, che a lungo hanno caratterizzato il territorio locale. In definitiva, a partire dalla lettura di opere dedicate all'ambiente, si intende evocare ed ascoltare le voci narranti dei luoghi, le sue storie e le sue leggende, per poi farle rivivere fra le pagine di un laboratorio di scrittura creativa e insieme formativa.
Il Laboratorio Luoghi Parlanti - adattabile alle esigenze dei partecipanti - si propone di evidenziare l'importanza del racconto di fantasia anche con lo scopo di riconoscere e superare le difficoltà interiori e di intervenire in situazioni emozionali che causano malessere e disagio. Si prevede il racconto di storie pensate e strutturate insieme ai partecipanti durante diversi laboratori esperienziali di narrazione. Si intende così mettere in atto la correlazione tra la storia scritta e se stessi, singolarmente e in gruppo, mediante le risorse a cui è possibile attingere per superare situazioni di sofferenza. Il Laboratorio vuole quindi proporre il racconto di fantasia, dunque creativo, non solo come momento ludico ma anche come strumento e occasione per entrare a contatto con il proprio mondo emotivo, con le paure e i desideri che albergano, spesso nascosti, dentro ogni essere, in particolare quando è in fase di formazione.
Giorno previsto: ogni sabato pomeriggio, dalle 16 alle 19. Partecipazione al Laboratorio gratuita.
IL TORRENTE E LE SUE ANIME Antonio Strinna - Scatole Parlanti Editore.
Sulla sponda del fiume Piedra
mi sono seduta e ho pianto.
Paulo Coelho
PREMESSA - AI MARGINI DELLA STORIA
Vi sembrerà strano. Ma già da diversi anni pensavo di scrivere la favola di un torrente, quella del rio San Lorenzo. Insieme alla valle e ai suoi abitanti. Dove sono nato e dove, da qualche tempo, ritorno per spendere gli ultimi sussulti della mia esistenza. Ultimi, per questo ancora più tenaci, dall'aria trasognata, come quei minuscoli fuochi che, sballottati dal vento, divampano senza temere di spegnersi da un momento all'altro. Chissà se poi, innamorato della mia follia, sono approdato a una favola o invece a una storia. Forse, un po' a una e un po' all'altra. In fondo, a distinguere le categorie è quasi sempre un confine sottile, talvolta soltanto una convenzione, se non un peccato di presunzione.
Certo è che, col passare del tempo, i ruoli sono profondamente cambiati. A un certo punto non ero più io a raccontare il torrente, ma lui stesso. E anche a raccontare di me ci pensava lui. Ormai, era diventato la mia casa. Dove bastava la mia sola voce a mettere in comunicazione gli uomini e il torrente. Così la mia presenza é diventata sempre più discreta, quasi invisibile. Insomma, con un unico gesto, del tutto naturale e indolore, mi sono trasferito dal mio centro di vanità ai margini della storia, dove adesso mi trovo perfettamente a mio agio e senza rimpianti.
Ecco perché, all'interno di questa storia, i luoghi sono gli attori principali e insieme le voci narranti, in continuo rapporto fra di loro e con gli uomini. E sono sempre i luoghi a determinare il punto di vista degli eventi, quasi mai coincidente con quello umano, per questo la narrazione appare fatalmente visionaria e straniante.
Per oltre cinquant'anni, il torrente - rio San Lorenzo - è rimasto nel silenzioso abbandono di una valle dimenticata quasi da tutti, insieme ai trentasei mulini e alle tre gualchiere che l'hanno popolata per tanti secoli. Ma ecco che un mattino compaiono due ragazzi che, per la loro insolita curiosità e fantasia, sono decisamente diversi da tanti altri loro coetanei. Così diversi da riuscire a dialogare con il torrente e a farsi battezzare con due nomi del tutto nuovi, Molineddu e Falesia, presi in prestito dalla valle.
Dopo Molineddu e Falesia, molti altri - ragazzi e adulti - avranno lo sguardo così immaginario da riuscire a dialogare con il torrente, il quale ha anche il potere di condurre i suoi interlocutori indietro nel tempo. E prima ancora dentro di sè, a contatto con la sua essenza. Per tutti, entrare nel letto del torrente, alimentato da decine di sorgenti, significherà conquistare una nuova consapevolezza di se stessi e della vita. In fondo, è la medesima consapevolezza del torrente, quella di essere costituito da miliardi di gocce, eppure di sentirsi una sola entità, e vivere perciò senza divisioni e conflitti. Quelle divisioni e quei conflitti che da sempre lacerano le comunità degli uomini, i loro cuori e le loro esistenze.
Insieme a un vecchio mulino, restaurato di recente, Adamo è uno dei personaggi più significativi del romanzo, un professore in pensione che non crede più nella società in cui è vissuto finora e che per questo ha un solo obiettivo: riscoprire se stesso, ritrovare Adamo, essere il primo uomo che si è affacciato a questo mondo. Il professore compirà uno spericolato e imprevedibile viaggio nel tempo; impossibile comprendere il mistero che abita nella sua mente e anche il destino che lo ha condotto nella valle, dentro un mulino senza luce né acqua.
Molineddu e Falesia ricompariranno alla fine del romanzo, sperduti dentro un vastissimo bosco mai frequentato prima, soprattutto sperduti dentro se stessi. Proprio dal bosco, come dal torrente, impareranno a comprendere che c'è una sola realtà che li può accomunare, unire profondamente, dentro la quale è possibile trovare qualunque risposta, qualunque strada stiano cercando. E' la realtà della consapevolezza - spesso assente nel nostro tempo - di aver bisogno l'uno dell'altro. E che fa dire a Molineddu e Falesia, fin quasi a gridarlo: "Io ho bisogno di te!" E l'eco a ripeterlo: "Io ho bisogno di te!" Lo ripete a lungo, l'eco, con la speranza che i due ne conservino buona memoria.
IL TORRENTE - Rio San Lorenzo - E LE SUE ANIME
I
Non so se lo accolsi per dovere o per abitudine, certo senza neanche un cenno di benvenuto. Era un mattino come migliaia di altri ne avevo già vissuto, così me lo sono preso in casa con il suo vuoto a rendere, senza aspettarmi niente. Quel mattino d'inizio settembre poteva essere di qualunque altra stagione, in un tempo che se ne frega del calendario e anche delle stagioni. Al solito, avevo messo in conto che mi avrebbe riservato un giorno fatalmente dominato dal silenzio, quello di una quiete sempre più vuota e solitaria. Una quiete confinata fra rocce e sambuco, assenzio e canneti dilaganti, ogni giorno in attesa che qualcuno sconvolga la sua monotonia.
Del resto, non sono che un torrente di anime antiche, dentro una valle sperduta, dove nascere e morire non fa differenza. Perciò, posso dedicarmi soltanto alle anime che abitano questa valle, alle loro vite minuscole, dimenticate. Anche perché io sono l'unico, a quanto pare, che vuole averne memoria, non potrei farne a meno. E io so che la memoria è la cura che non dovremmo mai negare ai nostri antenati.
Visto dai miei confini sempre più avari, era un mattino che non poteva promettermi neanche il più vago bagliore di novità. E nemmeno io, d'altronde, avvertivo dentro di me qualcosa di diverso alla partenza del mio viaggio quotidiano. L'esperienza, sempre allerta, ha buona memoria quando deve ricordarmi che ogni mio desiderio non vale più di uno sbuffo di vanità. Le mie storie soltanto cantilene di suoni. I miei sogni puntualmente infranti contro la realtà dell'alba. E i miei amici, mugnai e gualchierai, nell'esilio del loro tempo, sempre più lontano. Del loro passaggio non sono rimasti che pochi ruderi e qualche mulino senza acqua né frumento. Persino i cantadores a chitarra non si fermano più qui, anche le loro voci sono sempre più sole, come le mie.
Perciò, anche quel mattino io ero noiosamente lo stesso, intrappolato nella mia condanna da cinquant'anni a questa parte. La mia solitudine poteva ribollire discreta, oppure sguaiata, tanto nessuno e in nessun caso l'avrebbe mai ascoltata.
D'altronde, a chi vuoi che interessi il mio umore? Potrebbe essere di pietra o di terra, sapere di miele o di veleno, ugualmente non saprei da chi andare, la mia corsa non avrebbe alcuna meta. Proprio come questo giorno, e la maggior parte dei miei giorni, che pur volando su tutto e su tutti non trova un motivo per fermarsi, guardarsi amabilmente intorno, neanche per fare i conti con questo tempo, con il suo continuo navigare a vista. E poi, sguardo basso, senza pretese, mi chiedo se fra i tanti che si dicono innamorati della natura, ce n'è forse uno che sia mai venuto a chiedermi come sto, se ho bisogno di turisti o di amicizie, di vecchie o di nuove speranze. Soprattutto, se alla mia esistenza manca ancora qualcosa che sia semplicemente umano. Neppure delle mie anime, che un tempo erano le vostre, siete mai venuti a chiedermi.
Ecco perché non una delle mie gocce potrebbe mai sfiorare i pensieri di un uomo, figurarsi bagnarne interamente anche uno solo. Per fortuna, ho imparato a non farmi tentare da queste ambizioni. Non saprei cosa farmene. Per la verità, qualche volta mi sono lasciato prendere da una tentazione, quasi senza accorgermi, dalla tentazione di sentirmi, insieme alla valle, il tempio di tante storie perdute. Ma non io, solo loro, dovreste venerare.
Dal romanzo: IL PAESE CLANDESTINO
Antonio STRINNA - Arkadia editore.
"Lascia che il lievito del silenzio, con la sua abituale discrezione, lavori nella trama della tua esistenza", ecco con quale sentenza mi congedò la mia Olivetti Lettera 32. E concluse: "Lascia che maceri proprio tutto: il cuore, la fibra, l'umiltà. Soltanto così un giorno potrai rinascere, in qualche modo, e concederti un'altra occasione".
Insomma, un piccolo spiraglio di speranza, si sa, non si nega a nessuno. Anche se non manca mai il rischio che si trasformi, indefinitamente, in una nuova illusione. L'onda culturale del '68, arrivata in Italia dopo il maggio francese, avrebbe potuto alimentare questa speranza. Ma dentro la sua corsa prepotente, non so come, sospettavo che ci fosse anche qualcosa di fragile e dunque di provvisorio; del resto, era un'onda che il tempo doveva ancora mettere alla prova. Prima o poi lo farà, mi dicevo convinto, magari risparmiandogli la sconfitta, ma sommergendo il suo cambiamento con un altro cambiamento, e poi con un altro, un altro ancora. E ogni cambiamento sarà come una barca senza viaggio né meta.
Che cosa me lo faceva sospettare? Il fatto che il vero cambiamento, quello incarnato da Martin Luther King, era stato assassinato proprio in quella stessa primavera. A Memphis. Il pastore protestante era stato ucciso, infatti, il 4 aprile 1968. E con lui anche una storia appena nata. La sua speranza, soprattutto, era stata uccisa, e quella di milioni di persone.
Sì, perché il potere dei simboli -Martin Luther King era uno di questi, forse il più grandioso-, era stato annientato clamorosamente. Da chi? Proprio dai simboli negativi costituiti dal potere fin qui conosciuto. Da tutto questo appariva chiaro che non era ancora venuto il tempo in cui sarebbe stato possibile capovolgere i valori in campo e dunque il potere stesso.
Anche il libro "La forza di amare" di Martin Luther King, che avevo letto più volte come fosse la mia Bibbia personale, ora sembrava inutile, quasi morisse insieme a lui. Dopo quel 4 aprile, la primavera appena iniziata sembrava non avere più ragione di continuare. Soprattutto, non sembrava più stagione di sogni.
"Riteniamo che tutti gli uomini -di ogni razza e colore, poveri e ricchi-, siano stati creati uguali". Il mondo doveva ricominciare da qui.
Martin Luther King aveva un sogno straordinario, non solo grande, ma non faceva parte dei sogni dell'America, ancora meno dei potenti di questo paese. Così, già all'alba, quel sogno si era ricoperto di sangue. Sommerso e ucciso dal sangue. Ed era chiaro che, dopo la sua morte, nessuno avrebbe trovato i frutti del suo sacrificio dietro l'angolo. Era molto più facile raggiungere la luna che dare risposte al destino e alla dignità dell'uomo.
E poi c'era la voglia crescente di cambiamento, una vera e propria ossessione, malgrado l'evidente fragilità. Era un'etichetta puntualmente incollata a ogni parola, a ogni gesto. Pubblicità ingannevole, diremmo oggi, carica di promesse senza futuro. Ingannevole come qualunque industria dei sogni.
Cultura e fede guardavano alla modernità. La modernità, poi, avrebbe puntato al postmoderno. Senza pensare che forse un giorno non ci sarebbe rimasto che guardare al passato, alla tradizione, per recuperare quel poco che ci era rimasto. Quando ormai quasi tutto sarebbe stato difficile da ritrovare, per le strade, nelle scuole, nelle famiglie e persino nelle chiese.
Contestare, ribellarsi e infine cambiare, radicalmente... Radicalmente? Non è forse vero che c'è sempre qualcuno, primo fra tutti il potere, che non esita a cavalcare il cambiamento e a strumentalizzarlo a proprio vantaggio? Magari cancellando i vecchi valori, come è successo, sostituendoli con i propri. Per la maggior parte delle persone, specialmente per gli ingenui e gli sprovveduti, è sufficiente ogni volta sentirsi addosso un vestitino nuovo.
Non so quanto fossi consapevole di tutto questo e quanto fosse razionale la mia scelta, certo è che mi sentivo in dissenso su quanto stava vorticosamente accadendo. Il continuo cambiamento -così intuivo nell'intimo-, in fondo sgorgava dal ventre di un ambiguo progresso. Di quel progresso che aveva condannato e messo a morte la mia valle, con i suoi 36 mulini. Per cui trovavo automatico e istintivo chiedermi che altro ancora stava morendo, chi e cosa veniva travolto da questo generale cambiamento. Sacrificato sul suo altare, sempre più grande, e affamato, senza che qualcuno si sentisse responsabile -forse neppure cosciente-, di tutto quanto veniva annientato per sempre.
Dunque, in silenzio, scelsi di non seguire il facile corso delle tante mode che già si susseguivano una dopo l'altra. Quella della musica inglese, prima di tutto. E poi quelle, sempre più accattivanti, che ci suggerivano come dovevamo vestirci, parlare e persino sognare.