Certe storie sono luoghi dell'anima e raccontano di noi... Some stories are soul places and talk about us... LA NAVE SULLA COLLINA The ship on the hill Inedito
LA NAVE SULLA COLLINA
Antonio Strinna
E' la storia di Mastro Favola, un fabbricante di favole, della sua nave sulla collina e dei suoi singolari compagni di viaggio. Proprio a causa della sua passione per le favole, secondo i pregiudizi del paese, viene considerato mezzo uomo e mezzo bambino. Perciò discretamente emarginato, da allora per sempre. Colpevole di aver insegnato a bambini e ragazzi l'arte dell'immaginazione, troppo misteriosa per non destare sospetti. Che ci fosse dentro anche qualche potere?
A raccontare la sua storia - sarebbe meglio dire la sua favola - è un suo allievo, rimastogli fedele sino all'ultimo giorno della sua vita e anche dopo. Proprio con la sua morte, il funerale, inizia la narrazione. Ecco dunque comparire nel teatrino del lutto e del dolore Mastro Favola, dentro una bara ondeggiante, seguito dal prete, dal suo allievo e da un manipolo di officianti del dovere.
La narrazione continua con la nascita del bosco delle favole; uno dopo l'altro, tutti i luoghi frequentati da Mastro Favola e i suoi bambini si trasformano in luoghi parlanti. Uno di questi, il castello di Osilo, diventa la nave sulla collina, che dà il titolo al romanzo. E' un castello la cui forma somiglia molto a quella di una nave, specialmente quando - siamo nella seconda parte del romanzo - prende a navigare nel mare della notte, che poi è quello dell'ignoto, dove lo spazio e il tempo coincidono e sono uno soltanto.
Dentro la sua nave personale Mastro Favola trascorre le ultime notti della sua esistenza, durante le quali rivive la sua vita minuscola e nel mentre condivide molte altre storie, minuscole come la sua, singolari e disperate. Così, a partire dal crocevia della biblioteca dove ha speso gran parte della sua vita, ritornano a vivere fallimenti e rinascite, i suoi e quelli dei personaggi che ospita nella sua nave, ma anche i luoghi con i quali lui si è sempre identificato, profonda-mente, al punto che avrebbe voluto essere almeno uno di questi, non più se stesso. E forse è rimasto proprio lì, nella sua vera casa, dove ora può respirare villaggi di nuvole e non di meno villaggi di alberi e torrenti.
Sono dodici le notti trascorse nella sua Nave sulla collina e dodici le storie che gli vengano affidate da singolari compagni di viaggio.
Giulia, la strega, più volte maledetta, scomunicata e consegnata alla prigione sino alla morte per avere troppo amato.
Luisicu, prima assassino della madre e poi bandito in Barbagia, un figlio che non ha mai voluto accettare il perdono della madre.
Giuseppe, padre di tre figli morti e di tre sorgenti ancora vive, nate per incarnare le sue creature uccise una dopo l'altra dalla malattia.
Luisella, un amore inconsapevole e per questo pericoloso, perciò meglio lasciarlo prima che diventi una creatura malvagia.
Una pittrice misteriosa e la sua tela sempre bianca, dove non ci può essere vera creazione ma soltanto finzione.
Stefano e Monica, l'amore a prova di femminicidio. Un uomo e una donna che vogliono essere consapevoli, sino in fondo, del bene e del male di cui sono fatti.
Due scomunicati, insieme al loro amore, maledetti in eterno. Destinati a vagare per il mondo e nel tempo senza mai trovare pace.
Cinque idioti sbeffeggiati e messi alla berlina da un poeta, tutti insieme partecipano al funerale del poeta, lo ricordano e lo festeggiano in una cantina, attorniati da botti vino.
Michele Delitala, un amante ribelle e assassino, che ancora oggi vaga alcune vie della città. Un amore rifiutato dalla famiglia della donna, finito con il più drammatico degli epiloghi: la morte.
Celestino Fuoco, la musica degli ultimi, per sopravvivere. La musica che, durante una notte di balli, non cede all'amore, ma poi finisce per rimpiangere quello stesso amore.
Un mulino ad acqua venuto da lontano, sopravvissuto e poi abbandonato al suo destino, persino dimenticato. Un luogo parlante, che si racconta con voce propria.
Infine, i dimenticati: uccisi due volte, dal colera e dall'oblio. Più di 300 vittime del colera che non si sono mai arrese all'ingiustizia della dimenticanza.
Mastro Favola affida la sua eredità e anche la sua anima all'unico allievo che gli è rimasto fedele sino in fondo, l'io narrante. Il quale prende il suo posto quando casualmente si trova a fare da guida ad alcune scolaresche che lo scambiano per Mastro Favola, ormai ben noto in molte scuole della città.
La nave sulla collina, fin dall'inizio del suo viaggio, ha la prua ostinatamente puntata verso la ricerca di un solo amore, quello senza maschera e senza commedia. Così tutte le storie qui raccontate non fanno mai a meno di mostrarsi nude davanti a qualunque giudizio, così come sono state vissute, anche nel sangue della violenza e del dolore.
Dalla loro narrazione emergono i sentimenti più drammatici, insieme a conflitti e misteri; emergono quando ormai i protagonisti hanno smesso di nascondersi, agli altri e soprattutto a se stessi.
LUOGHI PARLANTI UN'IDEA PER GLI STUDENTI
LUOGHI PARLANTI
LABORATORIO DI LETTURA E SCRITTURA CREATIVA
A SAN LORENZO: MULINO COMUNALE
A CURA DI ANTONIO STRINNA
Il Laboratorio Luoghi Parlanti sarà imperneato sulla riscoperta dell'ambiente in quanto prima casa dell'uomo (Ecologia). Perciò contenitore della storia umana e della sua evoluzione nei secoli. E' la prima casa che, oggi più che mai, ha bisogno delle nostre cure, senza le quali siamo proprio noi a subirne le conseguenze, insieme al territorio, conseguenze sempre più spesso disastrose. Il progetto intende caratterizzarsi proponendo l'ambiente con alcuni luoghi specifici - il torrente, il bosco, il mulino, la gualchiera, il canyon, le falesie - come attori principali e insieme voci narranti, in continuo rapporto fra di loro e con gli uomini. E sono sempre i luoghi a determinare il punto di vista degli eventi, quasi mai coincidente con quello umano, anche perché la narrazione è opera della fantasia e della creatività degli studenti, insomma sul loro potere di immaginazione.
Il Laboratorio Luoghi Parlanti, percorrendo un lungo arco temporale, si prefigge di trarre insegnamento dalla storia di questi luoghi e dalle relazioni che gli stessi hanno avuto con gli uomini, prilegiando gli aspetti e i momenti creativi e insieme formativi. Le attività culturali saranno indirizzate alla conoscenza dell'ambiente, della geomorfologia, della flora e della fauna, delle tradizioni e delle vicende umane, in particolare di quelle dei mulini e delle gualchiere di San Lorenzo, che a lungo hanno caratterizzato il territorio locale. In definitiva, a partire dalla lettura di opere dedicate all'ambiente, si intende evocare ed ascoltare le voci narranti dei luoghi, le sue storie e le sue leggende, per poi farle rivivere fra le pagine di un laboratorio di scrittura creativa e insieme formativa.
Il Laboratorio Luoghi Parlanti - adattabile alle esigenze dei partecipanti - si propone di evidenziare l'importanza del racconto di fantasia anche con lo scopo di riconoscere e superare le difficoltà interiori e di intervenire in situazioni emozionali che causano malessere e disagio. Si prevede il racconto di storie pensate e strutturate insieme ai partecipanti durante diversi laboratori esperienziali di narrazione. Si intende così mettere in atto la correlazione tra la storia scritta e se stessi, singolarmente e in gruppo, mediante le risorse a cui è possibile attingere per superare situazioni di sofferenza. Il Laboratorio vuole quindi proporre il racconto di fantasia, dunque creativo, non solo come momento ludico ma anche come strumento e occasione per entrare a contatto con il proprio mondo emotivo, con le paure e i desideri che albergano, spesso nascosti, dentro ogni essere, in particolare quando è in fase di formazione.
Giorno previsto: ogni sabato pomeriggio, dalle 16 alle 19. Partecipazione al Laboratorio gratuita.
IL TORRENTE - Rio San Lorenzo - E LE SUE ANIME Antonio Strinna - Scatole Parlanti Editore.
Sulla sponda del fiume Piedra
mi sono seduta e ho pianto.
Paulo Coelho
PREMESSA - AI MARGINI DELLA STORIA
Vi sembrerà strano. Ma già da diversi anni pensavo di scrivere la favola di un torrente, quella del rio San Lorenzo. Insieme alla valle e ai suoi abitanti. Dove sono nato e dove, da qualche tempo, ritorno per spendere gli ultimi sussulti della mia esistenza. Ultimi, per questo ancora più tenaci, dall'aria trasognata, come quei minuscoli fuochi che, sballottati dal vento, divampano senza temere di spegnersi da un momento all'altro. Chissà se poi, innamorato della mia follia, sono approdato a una favola o invece a una storia. Forse, un po' a una e un po' all'altra. In fondo, a distinguere le categorie è quasi sempre un confine sottile, talvolta soltanto una convenzione, se non un peccato di presunzione.
Certo è che, col passare del tempo, i ruoli sono profondamente cambiati. A un certo punto non ero più io a raccontare il torrente, ma lui stesso. E anche a raccontare di me ci pensava lui. Ormai, era diventato la mia casa. Dove bastava la mia sola voce a mettere in comunicazione gli uomini e il torrente. Così la mia presenza é diventata sempre più discreta, quasi invisibile. Insomma, con un unico gesto, del tutto naturale e indolore, mi sono trasferito dal mio centro di vanità ai margini della storia, dove adesso mi trovo perfettamente a mio agio e senza rimpianti.
Ecco perché, all'interno di questa storia, i luoghi sono gli attori principali e insieme le voci narranti, in continuo rapporto fra di loro e con gli uomini. E sono sempre i luoghi a determinare il punto di vista degli eventi, quasi mai coincidente con quello umano, per questo la narrazione appare fatalmente visionaria e straniante.
Per oltre cinquant'anni, il torrente - rio San Lorenzo - è rimasto nel silenzioso abbandono di una valle dimenticata quasi da tutti, insieme ai trentasei mulini e alle tre gualchiere che l'hanno popolata per tanti secoli. Ma ecco che un mattino compaiono due ragazzi che, per la loro insolita curiosità e fantasia, sono decisamente diversi da tanti altri loro coetanei. Così diversi da riuscire a dialogare con il torrente e a farsi battezzare con due nomi del tutto nuovi, Molineddu e Falesia, presi in prestito dalla valle.
Dopo Molineddu e Falesia, molti altri - ragazzi e adulti - avranno lo sguardo così immaginario da riuscire a dialogare con il torrente, il quale ha anche il potere di condurre i suoi interlocutori indietro nel tempo. E prima ancora dentro di sè, a contatto con la sua essenza. Per tutti, entrare nel letto del torrente, alimentato da decine di sorgenti, significherà conquistare una nuova consapevolezza di se stessi e della vita. In fondo, è la medesima consapevolezza del torrente, quella di essere costituito da miliardi di gocce, eppure di sentirsi una sola entità, e vivere perciò senza divisioni e conflitti. Quelle divisioni e quei conflitti che da sempre lacerano le comunità degli uomini, i loro cuori e le loro esistenze.
Insieme a un vecchio mulino, restaurato di recente, Adamo è uno dei personaggi più significativi del romanzo, un professore in pensione che non crede più nella società in cui è vissuto finora e che per questo ha un solo obiettivo: riscoprire se stesso, ritrovare Adamo, essere il primo uomo che si è affacciato a questo mondo. Il professore compirà uno spericolato e imprevedibile viaggio nel tempo; impossibile comprendere il mistero che abita nella sua mente e anche il destino che lo ha condotto nella valle, dentro un mulino senza luce né acqua.
Molineddu e Falesia ricompariranno alla fine del romanzo, sperduti dentro un vastissimo bosco mai frequentato prima, soprattutto sperduti dentro se stessi. Proprio dal bosco, come dal torrente, impareranno a comprendere che c'è una sola realtà che li può accomunare, unire profondamente, dentro la quale è possibile trovare qualunque risposta, qualunque strada stiano cercando. E' la realtà della consapevolezza - spesso assente nel nostro tempo - di aver bisogno l'uno dell'altro. E che fa dire a Molineddu e Falesia, fin quasi a gridarlo: "Io ho bisogno di te!" E l'eco a ripeterlo: "Io ho bisogno di te!" Lo ripete a lungo, l'eco, con la speranza che i due ne conservino buona memoria.
IL TORRENTE - Rio San Lorenzo - E LE SUE ANIME
I
Non so se lo accolsi per dovere o per abitudine, certo senza neanche un cenno di benvenuto. Era un mattino come migliaia di altri ne avevo già vissuto, così me lo sono preso in casa con il suo vuoto a rendere, senza aspettarmi niente. Quel mattino d'inizio settembre poteva essere di qualunque altra stagione, in un tempo che se ne frega del calendario e anche delle stagioni. Al solito, avevo messo in conto che mi avrebbe riservato un giorno fatalmente dominato dal silenzio, quello di una quiete sempre più vuota e solitaria. Una quiete confinata fra rocce e sambuco, assenzio e canneti dilaganti, ogni giorno in attesa che qualcuno sconvolga la sua monotonia.
Del resto, non sono che un torrente di anime antiche, dentro una valle sperduta, dove nascere e morire non fa differenza. Perciò, posso dedicarmi soltanto alle anime che abitano questa valle, alle loro vite minuscole, dimenticate. Anche perché io sono l'unico, a quanto pare, che vuole averne memoria, non potrei farne a meno. E io so che la memoria è la cura che non dovremmo mai negare ai nostri antenati.
Visto dai miei confini sempre più avari, era un mattino che non poteva promettermi neanche il più vago bagliore di novità. E nemmeno io, d'altronde, avvertivo dentro di me qualcosa di diverso alla partenza del mio viaggio quotidiano. L'esperienza, sempre allerta, ha buona memoria quando deve ricordarmi che ogni mio desiderio non vale più di uno sbuffo di vanità. Le mie storie soltanto cantilene di suoni. I miei sogni puntualmente infranti contro la realtà dell'alba. E i miei amici, mugnai e gualchierai, nell'esilio del loro tempo, sempre più lontano. Del loro passaggio non sono rimasti che pochi ruderi e qualche mulino senza acqua né frumento. Persino i cantadores a chitarra non si fermano più qui, anche le loro voci sono sempre più sole, come le mie.
Perciò, anche quel mattino io ero noiosamente lo stesso, intrappolato nella mia condanna da cinquant'anni a questa parte. La mia solitudine poteva ribollire discreta, oppure sguaiata, tanto nessuno e in nessun caso l'avrebbe mai ascoltata.
D'altronde, a chi vuoi che interessi il mio umore? Potrebbe essere di pietra o di terra, sapere di miele o di veleno, ugualmente non saprei da chi andare, la mia corsa non avrebbe alcuna meta. Proprio come questo giorno, e la maggior parte dei miei giorni, che pur volando su tutto e su tutti non trova un motivo per fermarsi, guardarsi amabilmente intorno, neanche per fare i conti con questo tempo, con il suo continuo navigare a vista. E poi, sguardo basso, senza pretese, mi chiedo se fra i tanti che si dicono innamorati della natura, ce n'è forse uno che sia mai venuto a chiedermi come sto, se ho bisogno di turisti o di amicizie, di vecchie o di nuove speranze. Soprattutto, se alla mia esistenza manca ancora qualcosa che sia semplicemente umano. Neppure delle mie anime, che un tempo erano le vostre, siete mai venuti a chiedermi.
Ecco perché non una delle mie gocce potrebbe mai sfiorare i pensieri di un uomo, figurarsi bagnarne interamente anche uno solo. Per fortuna, ho imparato a non farmi tentare da queste ambizioni. Non saprei cosa farmene. Per la verità, qualche volta mi sono lasciato prendere da una tentazione, quasi senza accorgermi, dalla tentazione di sentirmi, insieme alla valle, il tempio di tante storie perdute. Ma non io, solo loro, dovreste venerare.
Dal romanzo: IL PAESE CLANDESTINO
Antonio STRINNA - Arkadia editore.
"Lascia che il lievito del silenzio, con la sua abituale discrezione, lavori nella trama della tua esistenza", ecco con quale sentenza mi congedò la mia Olivetti Lettera 32. E concluse: "Lascia che maceri proprio tutto: il cuore, la fibra, l'umiltà. Soltanto così un giorno potrai rinascere, in qualche modo, e concederti un'altra occasione".
Insomma, un piccolo spiraglio di speranza, si sa, non si nega a nessuno. Anche se non manca mai il rischio che si trasformi, indefinitamente, in una nuova illusione. L'onda culturale del '68, arrivata in Italia dopo il maggio francese, avrebbe potuto alimentare questa speranza. Ma dentro la sua corsa prepotente, non so come, sospettavo che ci fosse anche qualcosa di fragile e dunque di provvisorio; del resto, era un'onda che il tempo doveva ancora mettere alla prova. Prima o poi lo farà, mi dicevo convinto, magari risparmiandogli la sconfitta, ma sommergendo il suo cambiamento con un altro cambiamento, e poi con un altro, un altro ancora. E ogni cambiamento sarà come una barca senza viaggio né meta.
Che cosa me lo faceva sospettare? Il fatto che il vero cambiamento, quello incarnato da Martin Luther King, era stato assassinato proprio in quella stessa primavera. A Memphis. Il pastore protestante era stato ucciso, infatti, il 4 aprile 1968. E con lui anche una storia appena nata. La sua speranza, soprattutto, era stata uccisa, e quella di milioni di persone.
Sì, perché il potere dei simboli -Martin Luther King era uno di questi, forse il più grandioso-, era stato annientato clamorosamente. Da chi? Proprio dai simboli negativi costituiti dal potere fin qui conosciuto. Da tutto questo appariva chiaro che non era ancora venuto il tempo in cui sarebbe stato possibile capovolgere i valori in campo e dunque il potere stesso.
Anche il libro "La forza di amare" di Martin Luther King, che avevo letto più volte come fosse la mia Bibbia personale, ora sembrava inutile, quasi morisse insieme a lui. Dopo quel 4 aprile, la primavera appena iniziata sembrava non avere più ragione di continuare. Soprattutto, non sembrava più stagione di sogni.
"Riteniamo che tutti gli uomini -di ogni razza e colore, poveri e ricchi-, siano stati creati uguali". Il mondo doveva ricominciare da qui.
Martin Luther King aveva un sogno straordinario, non solo grande, ma non faceva parte dei sogni dell'America, ancora meno dei potenti di questo paese. Così, già all'alba, quel sogno si era ricoperto di sangue. Sommerso e ucciso dal sangue. Ed era chiaro che, dopo la sua morte, nessuno avrebbe trovato i frutti del suo sacrificio dietro l'angolo. Era molto più facile raggiungere la luna che dare risposte al destino e alla dignità dell'uomo.
E poi c'era la voglia crescente di cambiamento, una vera e propria ossessione, malgrado l'evidente fragilità. Era un'etichetta puntualmente incollata a ogni parola, a ogni gesto. Pubblicità ingannevole, diremmo oggi, carica di promesse senza futuro. Ingannevole come qualunque industria dei sogni.
Cultura e fede guardavano alla modernità. La modernità, poi, avrebbe puntato al postmoderno. Senza pensare che forse un giorno non ci sarebbe rimasto che guardare al passato, alla tradizione, per recuperare quel poco che ci era rimasto. Quando ormai quasi tutto sarebbe stato difficile da ritrovare, per le strade, nelle scuole, nelle famiglie e persino nelle chiese.
Contestare, ribellarsi e infine cambiare, radicalmente... Radicalmente? Non è forse vero che c'è sempre qualcuno, primo fra tutti il potere, che non esita a cavalcare il cambiamento e a strumentalizzarlo a proprio vantaggio? Magari cancellando i vecchi valori, come è successo, sostituendoli con i propri. Per la maggior parte delle persone, specialmente per gli ingenui e gli sprovveduti, è sufficiente ogni volta sentirsi addosso un vestitino nuovo.
Non so quanto fossi consapevole di tutto questo e quanto fosse razionale la mia scelta, certo è che mi sentivo in dissenso su quanto stava vorticosamente accadendo. Il continuo cambiamento -così intuivo nell'intimo-, in fondo sgorgava dal ventre di un ambiguo progresso. Di quel progresso che aveva condannato e messo a morte la mia valle, con i suoi 36 mulini. Per cui trovavo automatico e istintivo chiedermi che altro ancora stava morendo, chi e cosa veniva travolto da questo generale cambiamento. Sacrificato sul suo altare, sempre più grande, e affamato, senza che qualcuno si sentisse responsabile -forse neppure cosciente-, di tutto quanto veniva annientato per sempre.
Dunque, in silenzio, scelsi di non seguire il facile corso delle tante mode che già si susseguivano una dopo l'altra. Quella della musica inglese, prima di tutto. E poi quelle, sempre più accattivanti, che ci suggerivano come dovevamo vestirci, parlare e persino sognare.