C'è sempre qualcuno che
cammina insieme alle tenebre, e noi siamo fra quelli, marito e
moglie, poco importa il nostro nome. Del resto, neppure lo
ricordiamo. O forse è stato cancellato per sempre insieme al nostro
battesimo, alla nostra dignità. Ciò che invece ricordiamo bene, in
ogni piega del nostro essere, è la nostra storia, terribile quanto
antica, che siamo costretti a vivere ogni giorno. Perché proprio
questa è la nostra maledizione, quella che un vescovo -in nome di
Dio, dei suoi santi e con il suo spietato potere-, ci ha scaraventato
addosso. E oggi come allora non possiamo fare a meno di pagarne il
prezzo.
Ecco perché come due
fragili ombre camminiamo senza sosta, io e mia moglie, ricurvi sulla
schiena, reggendoci a stento, appoggiandoci su vecchi e nodosi
bastoni di olivastro. Dopo qualche anno, ognuno di questi bastoni
trova il suo riposo, noi invece no, neppure in qualche luogo
sconosciuto, dove poter vivere affrancati dalla sofferenza.
Sciagurati procediamo di villaggio in villaggio, senza poter superare
le periferie, assoggettati a una notte sconfinata che non prevede
alba.
Durante il nostro cammino,
le cadute sono un'abitudine quotidiana. Del resto, potrebbe forse
essere diversamente? Siamo così profondamente piegati da non
riuscire a vedere i nostri volti, impossibile scorgere i nostri
sguardi, il nostro volto avvizzito. Ogni giorno di più i nostri
occhi si caricano di tristezza, la stessa che risuona dai nostri
passi, incalcolabili eppure senza direzione. A forza di guardare
verso il basso, i nostri occhi sanno di terra, di sassi ed erba.
Soltanto qualche volta sanno di muri e di cespugli. Per noi non
esiste orizzonte, come non esiste speranza.
Il nostro viaggio è
iniziato a Trèchido, un villaggio scomparso del quale non è rimasta
traccia, una volta si trovava fra Bonorva e Torralba. Dunque, noi siamo
gli unici superstiti di questo villaggio, anche perché, nonostante
il nostro eterno vagare, non lo abbiamo mai lasciato completamente.
Da molto tempo, dunque,
siamo condannati a non fermarci mai, e a non avere una meta. Neppure
la morte ha potuto interrompere questo viaggio, né ci ha consentito
un pietoso raggio di quiete. Anche i nostri figli sono stati
condannati a subire lo stesso destino, maledetti come noi, uniti
nel destino ma separati da noi. Il diavolo in persona ci accompagna.
Per noi il tempo non passa mai, non c'è oggi né domani.
Non passa perché è il
tempo dell'inferno, è in suo totale potere, e procede ovunque
siamo noi. In fondo, l'inferno siamo noi, per noi stessi. E altro
non abbiamo di cui vivere.
Il peso che portiamo
addosso è gigantesco e anche mostruoso, talmente disumano che anche
dentro di noi sentiamo di toccare terra, materialmente, il nostro
spirito striscia come un serpente. E' una maledizione eterna, piena
d'ira e di rancore, la nostra maledizione. E non sa che cosa sia
il perdono.
Forse vi chiederete per
quale motivo abbiamo lasciato il nostro villaggio. A causa di qualche
guerra, di qualche pestilenza, inseguendo qualche spericolata
avventura?
Per colpa dell'amore,
proprio così, dell'amore che qualcuno ha voluto impedire, e poi
nel nome di Dio ha ritenuto di dover maledire, per sempre. Ha
maledetto noi e pure il villaggio intero nel quale abitavamo.
Che strano, vero? Proprio
l'amore... Ma quale amore è stato capace di maledire una famiglia,
di sospingerla ovunque e anche nel tempo come fossero dei dannati in
eterno? Per di più, è stato la causa della distruzione di un
villaggio intero.
Allora, in questi
luoghi, ogni villaggio nasceva da una famiglia, ne bastava una sola.
Ma erano anche villaggi che potevano morire ad opera di una famiglia
soltanto, anche prima che questa si fosse costituita. Perciò, anche
Trechido è sorto così. Una famiglia dopo l'altra. Ma poi,
all'improvviso, è passato fatalmente dalla nascita alla
distruzione.
La sua morte è iniziata
con l'amore, con l'amore mai benedetto di due giovani, noi due.
Io mi ero innamorato di una ragazza del villaggio, forse la più
bella, certo il suo amore era così forte e radicato che mai lei
avrebbe rinunciato a mettere su famiglia insieme a me.
E lei mi amava senza limiti, per me era disposta a tutto; voleva
essere moglie e madre, magari di tanti bambini, an-che a dispetto
della nostra povertà e dell'incertezza della vita. Avevamo
soltanto noi stessi, ma tanto basta per sentirci ricchi.
Entrambi poi credevamo
nella generosa benedizione della chiesa, che consideravano la nostra
seconda madre, la più elevata, la più comprensiva, oltre che
eterna. In lei confidavamo, senza nulla teme-re. Del resto, cosa
potevano temere da una madre così grande, così potente e immortale?
Intanto, scopro che
c'era qualcuno deciso a ostacolare il nostro amore, persino a
impedire la nostra unione. La mia sorpresa è stata tanta. E
chi era questo signore?
Qualche nobile, qualche feudatario, qualche proprietario terriero?
Allora capitava che si
ritenessero padroni anche di noi, persino prima che nascessimo.
Persino i monasteri, insieme al bestiame e alle terre, ci
consideravano loro proprietà. Persino dei nostri figli, prima ancora
di nascere, erano proprietari, per tutta la vita.
Ormai erano trascorsi
diversi anni, ci volevamo bene e desideravamo sposarsi, eravamo
determinati ad affrontare il futuro insieme, poco importava se già
sapevamo che non sarebbe stato senza imprevisti e asperità.
A questo punto mancava
soltanto la benedizione. Certo, la benedizione del prete, che
avrebbe dovuto unirci in matrimonio. Ma c'era qualcuno, come ho
appena detto, che si opponeva. E chi mai? E per quale motivo? Era
proprio il prete che avrebbe dovuto unirci in matrimonio. Si
rifiutava di benedire la nostra unione. Che
diamine, mi sono detto incredulo, possibile che sia proprio lui a
ostacolare il nostro sogno? Che era poi un nostro diritto. Non
volevamo crederci.
Si opponeva, eccome! Si
opponeva con tutto il suo potere! Naturalmente con i pretesti più
diversi, di ogni tipo, senza mai dire la verità. Anzi, ha sempre
tentato di nasconderla, anche se ormai mi era tutto chiaro.
Non erano che scuse
pretestuose, le sue, per negarci la cerimonia.
Il fatto è che il prete
voleva per sé la donna che volevo sposare, a disposizione delle sue
voglie. Certo non perché intendeva spretarsi e quindi sposarla. No,
prete e insieme amante, ecco che cosa pretendeva di essere. Magari
anche con altre donne, come fossero di sua proprietà.
Proprio così, il prete ne
rivendicava la proprietà. A questo punto, secondo il prete, avrei
dovuto trovarmi un'altra donna, se volevo ancora sposarsi e pensavo
di farmi una famiglia.
Non eravamo certo i soli a
conoscenza della pretesa del prete. La gente sapeva bene di questa
brutta storia. E sapeva
pure che qualcosa di grave sarebbe successo, prima o poi. Quella
diavoleria non poteva durare a lungo, senza causarne qualche altra,
persino più grave. Era fin troppo facile immaginare quale sarebbe
stata.
Non potevamo certo
aspettare all'infinito o addirittura rinunciare. Come avrei potuto
rassegnarmi a non sposare la mia amata? Oltretutto, per lasciarla in
balìa delle morbose ambizioni di possesso del prete.
Così, inevitabilmente,
tutt'e due iniziammo a odiare il prete, ormai senza misura. Lo
odiavamo più di un nemico, più di chi ti ruba il pane e anche il
respiro! Ogni nostro pensiero era attraversato da un odio
implacabile, sempre più lacerante. Lo odiavamo come può odiarlo
soltanto lo spirito della tempesta, che poi è anche quello della
vendetta, e non conosce un solo attimo di quiete, né sonno né
riposo.
Più volte ho minacciato
il prete, in tutti i modi, sperando di costringerlo, almeno con le
cattive, a fare il suo dovere di prete, di uomo di Dio, invece di
rubare le donne agli altri.
Un giorno, con tutto quanto
mi ribolliva dentro, gli ho sputato in faccia, davanti a dei
testimoni, che lo avrei ammazzato. Ormai ero deciso a farla finita
con il prete, con questo imbroglio delirante che sembrava senza via
d'uscita. Un giorno, terminata la Messa, l'ho affrontato sul
portone della chiesa.
«Sappi
che ti metterò sotto un palmo di terra se non lasci in pace la mia
fidanzata!»
Mi sentivo dentro una rabbia furibonda. Perciò, senza esitare,
continuai a sputare tutta la mia rabbia: «Ti
dò un mese di tempo, prete maledetto, e se entro questo mese non
saremo sposati, per colpa tua, io ti farò dormire per sempre sopra
un letto di terra e di sangue!»
Come pensate che abbia
reagito il prete?
Come al solito, sicuro di
sé, neppure mi ha degnato di una risposta. Dopo un'alzata di
spalle, guardandomi dritto negli occhi mi ha lanciato un provocatorio
sorriso di sfida, seguito dalla smorfia digrignante del suo potere.
Subito dopo si è allontanato scuotendosi la tonaca. Del resto, io
non ero che polvere, per lui. Polvere che si era permessa di
infastidirlo, persino di minacciarlo. Come mi ero permesso, non ero
forse un miserabile? Mai, come in quei momenti, mi era capitato di
sentire Dio e il cielo in questo modo, con la loro tremenda
inimicizia. Mai mi ero sentito così solo con me stesso.
Per
tutta risposta, non perse tempo, il prete, a vendicarsi per
l'affronto che gli avevo fatto pubblicamente. Servendosi dei suoi
parenti, mi fece incendiare un campo che avevo seminato a grano, non
ancora soddisfatto fece sgarrettare il mio bestiame, sino a
decimarlo. Ditemi, potevo forse non essere stanco di attendere invano
la tanto sospirata cerimonia di matrimonio, esasperato dai soprusi
patiti dal prete e dalle attenzioni morbose che riservava alla mia
donna?
Insomma, ormai era
chiaro, il destino doveva fare il suo corso, sino in fondo. Sì, il
destino e il male, inseparabili. La strada e la vita ormai
appartenevano soltanto a loro. A loro che vanno spesso insieme, come
l'uomo e il suo bastone. Ormai, nessuno avrebbe potuto fermarli.
Sono loro che decidono della vita e della morte di noi poveri uomini
nati e cresciuti in mezzo alle miserie.
Dunque, sul portone della
chiesa quel giorno, in quel momento preciso, era stato già deciso il
seguito della vostra storia. Certo non immaginavo che, insieme alla
nostra, sarebbe stata decisa anche quella del villaggio, Trechido.
Forse vi state chiedendo
che cosa c'entra il villaggio di Trechido con la storia del prete e
la nostra.
Trascorse un mese intero,
interminabile, ma il prete non ci pensava affatto a sposarci. Anzi,
anche lo sguardo aveva sempre più arrogante, il suo atteggiamento di
sfida appariva persino più sfrontato e cattivo. Così, quella
domenica, come suo solito, il prete iniziò a celebrare la Messa.
Ormai non ricordava che gli avevo fatto una promessa, non meno
solenne della Messa che adesso stava per celebrare, non lo ricordava e
forse neppure lo voleva. Tanto meno pensava che quella sarebbe
potuta essere la sua ultima Messa! Messa di morte, questa volta, non
di resurrezione.
Il potere stava dalla sua
parte, così anche la malvagità, quella orrenda e senza limiti.
Ecco perché si mostrava, e in effetti lo era, tanto sicuro di sé.
Perciò, nella sua presunzione non poteva nemmeno immaginare che
sarei stato più violento di lui! Insomma, che avrei fatto ricorso a
un potere più forte del suo. Quello che ormai mi sentivo dentro e
che lui stesso mi aveva suscitato. E dunque, a questo punto vi
chiederete, sicuramente, come anda-rono poi le cose?
Quella domenica, a
differenza delle altre volte, ero andato da solo a Messa. Si era
ancora all'inizio della celebrazione. Come di consueto, il prete
sollecitava i fedeli a chiedere perdono per i loro peccati. Peccati
che, in fondo, già pagavano ogni giorno, anche a caro prezzo. Come
la vita, e ogni genere di prepotenti, esigeva ogni giorno da loro.
Quali fossero poi questi peccati non l'ho mai capito.
Ciononostante, proprio tutti
dovevano confessare e chiedere perdono per i loro peccati; e così
anche il celebrante.
Il celebrante? Non credo
proprio che in cuor suo pensasse di dover chiedere perdono, tanto
meno per la sua infinita superbia, così violenta e mostruosa,
soprattutto lontana dal Vangelo, dagli insegnamenti che lui stesso
predicava. Perdono per finta, quello sì, poteva bastare. D'altronde,
quando mai aveva fatto parte della schiera dei peccatori?
Eppure, non era forse un
peccato anche il suo? Per di più, non uno qualunque. Pretendere la
proprietà di una donna e impedire il nostro sacrosanto matrimonio,
non era forse un peccato contro l'amore e contro Dio stesso?
Intanto, entrato in
chiesa per ultimo, mi sono fermato appena dopo l'ingresso. Ero
armato di un archibugio, che tenevo al mio fianco, pronto a sparare.
Quando sono entrato non sapevo ancora in quale momento preciso avrei
fatto fuoco. Ma quando ho sentito la sua bocca, tronfia e sprezzante,
predicare e pretendere che quel misero popolo di Dio chiedesse
perdono per i suoi peccati, allora ho capito che quello e soltanto
quello poteva essere il momento giusto per fare giustizia, una volta
per tutte.
«Sei
tu che devi chiedere perdono, maledetto prete! Non questa povera
gente!»
ho gridato avanzando deciso sino al centro della chiesa, con
l'archibugio puntato sul prete.
Silenzio. Credo che per
tutti i presenti sia stato un silenzio di terrore, da ghiacciare il
sangue. «Chiedi
perdono tu, bastardo, perché hai peccato, troppo a lungo hai
peccato, e adesso spetta a me peccare. E' il mio peccato è uno
soltanto: mandarti per sempre all'inferno!»
Nessun altro avvertimento,
nessuna esitazione. Dall'archibugio ho fatto partire un colpo, ben
mirato, appena ho visto il prete con il braccio puntato verso di me.
Un colpo dritto al cuore, uno soltanto, ma sufficiente a colpirlo a
morte.
In un attimo si è
accasciato dentro i suoi paramenti, le braccia ripiegate, lo sguardo
spento e immobile, subito richiuso. Il prete ha avuto appena il tempo
di capire, incredulo, non di gridare, di capire quello era il suo
ultimo respiro e dunque la mia minaccia era ormai diventata concreta,
anche più forte della sua prepotenza, per cui la sua fine era
arrivata davvero. Il suo corpo, incredibilmente spento, era quindi
precipitato ai piedi dell'altare.
La gente è stata subito
invasa dall'angoscia e dall'orrore, sentimenti che avevano un
volto soltanto, quello del peccato. Spaventoso peccato. Intanto,
tutti si sono precipitati verso il prete, lo hanno portato in
sacrestia, ma era ormai senza vita, la sua anima ormai lontana. E
mentre la gente si accalcava attorno al cadavere, io mi affrettavo a
lasciare la chiesa. Montato a cavallo, mi sono lanciato verso
l'altopiano, dove avevo preparato accuratamente il mio
nascondiglio, sicuro che lì non mi avrebbe trovato nessuno. E
infatti nessuno riuscì mai a rintracciarmi.
Di me si persero le tracce,
per sempre. Del resto, non mi fu difficile trovare una buona
compagnia, quella dei banditi, allora ce n'erano ovunque. E con
loro trovai un rifugio sicuro.
Qualche mese più tardi,
come d'accordo, io e la mia donna ci ritrovammo, da qualche parte.
Certo non da sposati, come avevamo sempre sognato. Comunque ci
ritrovammo, vivemmo insieme. Ma soltanto per poco fummo felici. Dopo
di noi, non trascorse molto tempo che anche il villaggio iniziò a
scomparire. Qualche anno dopo il villaggio intero non esisteva più.
Era il 1664, l'inizio
della fine, soprattutto era tempo di scomuniche e maledizioni.
Durante il quale, nel mese di novembre, era stato ucciso un prete,
per di più mentre celebrava la Messa. Forse perché non era stato
catturato il colpevole, forse perché così doveva comunque andare,
fatto sta che il Vescovo decise di condannare tutta Trechido.
Insomma, il Vescovo fece ricadere anche sul villaggio la colpa del
mio peccato, da lui ritenuto imperdonabile, con la sua solenne
scomunica. Da quel giorno il villaggio rimase costantemente senza
Dio, la chiesa sconsacrata, privo di prete!
Nessuno che venisse a
celebrare la Messa, neanche la domenica. Nessun rintocco di campana.
Neppure per i morti, per comunicare che era arrivato il momento della
pietà.
Nessuno. Allora e per
sempre, senza perdono, senza nessuna speranza di salvezza! Da quel
momento la gente prese ad andare nel villaggio più vicino per i riti
religiosi.
Con il passare dei giorni,
gli abitanti di Trechido iniziarono a sentirsi colpevoli, al posto
mio; pensavano che insieme alla scomunica era già caduta, sulle
loro vite, almeno qualcuna delle terribili maledizioni pronunciate
dal Vescovo. Che erano numerose e grondanti di malvagità, indegne
di qualunque Dio. E il primo maleficio della scomunica era la peste:
più di uno, infatti, subito dopo, si era ammalato di questo male.
Con il trascorrere dei mesi la peste prese inesorabilmente a
dilagare. Insomma, non si poteva continuare a vivere in una terra
scomunicata. Segnata dalla maledizione, rifiutata anche dal padre
eterno, ormai aggredita dalla peste. Una famiglia dopo l'altra,
abbando-narono il villaggio e la loro storia, pur senza colpa,
accompagnati dalla dannazione del cielo, ormai condannati a cercare
fortuna altrove.
E noi, noi due, dove
avremmo potuto cercare fortuna? E poi, come riuscire a trovare almeno
qualche briciola di fiducia? Ormai, non era facile neppure sopravvivere.
Come avremmo potuto
trovare anche una sola briciola di vita, di vita vera, se la
scomunica del Vescovo era per noi senza speranza, in eterno, e dunque
non smetteva di cadere su di noi neppure un so-lo istante?
D'altronde, si sa, quando l'albero rovina a terra tutti corrono a
farci la legna. Se poi c'è qualcuno che si ritiene padrone
assoluto di due miseri disgraziati non esita a impegnare tutto il suo
potere, di terra, di mare e di cielo, per impedire che sopravviva
anche solo la loro cenere.
Ma certo è più facile
comprendere il nostro vivere, così come è stato, di sola morte,
ascoltando la tremenda scomunica con la quale il Vescovo si è
prodigato nel ridurci all'annientamento. Proprio così,
annientamento!
- Maledetto sia dalla
Santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo. In modo che la
potenza del padre lo distrugga, la saggezza del figlio lo confonda e
l'amore dello Spirito Santo lo abbia in orrore, da questo istante e
per tutta l'eternità. Amen.
- Maledetto sia dalla
Santissima Vergine Maria, nostra Signora. Amen.
- Maledetto sia da tutti
gli Apostoli, in particolare da san Pietro e san Paolo, e sbarrate
gli tengano le porte del Cielo. Amen.
- Maledetto sia dai nove
cori degli Angeli, da tutti i santi Patriarchi, Profeti, Martiri,
Confessori, Vergini e Vedove. Amen.
- Maledetto sia da tutti i
sommi Pontefici, Cardinali, Vescovi, Arcivescovi e sacerdoti. Amen.
- Maledetto sia andando,
camminando, dormendo, vigilando, e il diavolo gli stia sempre
davanti, lo molesti e lo offenda. Amen.
- I suoi giorni siano pochi
e cattivi, pieni di ogni miseria e tribolazione e quando sarà
giudicato sia condannato; i suoi discorsi e i suoi pensieri siano
sempre evanescenti. Amen.
- Mendicando ed
elemosinando vada di porta in porta e non trovi chi gli faccia del
bene. Amen.
Anche una sola di queste
maledizioni avrebbe potuto farci inciampare, schiacciarci a terra
tutt'e due, eternamente dannati, con-dannati a strisciare come
serpenti. Perciò c'erano dei momenti in cui ci ritrovavamo
immobili, ridotti a delle pietre, perciò privati anche del respiro,
sotto quello scrosciare di maledizioni che provenivano da un Dio
senza alcun potere di perdono. Come pensare, poi, che avesse mai
esercitato il potere di amare? Ovunque andassimo ci raggiungeva
spietato il diluvio senza scampo delle maledizioni. Al punto che
anche la nostra memoria subiva la stessa sorte, una continua
esplosione, ancora oggi.
- Durante il giorno
gli scompaia il sole e di notte la luna. Amen.
- Avendo occhi non veda,
avendo orecchie sia sordo, avendo lingua sia muto, avendo mani sia
mutilato, avendo piedi sia storpio e zoppo. Dalla testa ai piedi
piagato e putrido, in modo che nel suo corpo non rimango un osso
sano. Amen.
-Dio onnipotente lo
castighi con la pazzia, lo renda cieco e furibondo, in modo che
cammini nell'oscurità senza poter mai trovare la strada. Amen.
- Nostro Signore gli invii
fame e confusione in tutto quanto è opera delle sue mani, sino a
distruggerlo. Amen.
- Nostro Signore invii su
di lui la peste fino a quando non lo abbia consumato e fatto sparire
dal pianeta. Amen.
Nel frattempo siamo venuti
a sapere che la peste era piombata su tutto il villaggio, con una
forza devastante e inarrestabile. Una peste che, insieme alla
scomunica, aveva costretto gli abitanti a lasciare per sempre case,
animali e terre.
Nessuna storia li avrebbe
seguiti, né sarebbe rimasta a ricordarli fra le case diroccate,
soltanto un silenzio destinato a durante in eterno. E intanto
risentivano le campane suonare a morto, insieme alle maledizioni
della scomunica promulgate in nome di Dio, del Figlio e dello
Spirito Santo, che intanto continuavano a precipitare su di loro come
macigni.
Non erano certo campane
del villaggio, sicuramente erano quelle di qualche demonio, vestito
da prete, forse anche da vescovo, che vantava la sua vittoria sul
villaggio.
- Nostro Signore lo
castighi con la povertà, la febbre, il freddo, il calore e la
corruzione, sino a consumarsi. Amen.
- In tutto il suo tempo
patisca calamità e calunnie e cammini oppresso con violenza, e non
ci sia chi lo liberi. Amen.
- Non abbia assistenza da
anima vivente. Amen.
- Le orazioni che dovesse
fare si convertano in peccato. Amen.
- Vengano su di lui
tempeste di lampi, di tuoni, e il turbine di due venti, e
terribilissimi castighi, così che anche vivendo risulti morto e
bruciato e non abbia chi gli dia sepoltura. Amen.
- Sia il suo corpo mangiato
da animali terrestri, volatili e pestiferi, e che nessuno possa
difenderlo. Amen.
I nostri corpi, intanto,
sotto i colpi delle maledizioni cedevano ogni giorno di più, nudi,
martoriati e appesantiti, due fragili canne sempre più rinsecchite.
Poteva forse essere diversamente mentre eravamo sottomessi ai fulmini
che dal cielo cadevano incessanti, anche se invisibili, forse per
questo ancora più violenti, rendendo le nostre esistenze ancora più
miserabili, invivibili.
In fondo, era impossibile
pagare per il nostro peccato, una volta per tutte, in alcun modo.
Nemmeno una vita intera sarebbe bastata a guarire da questo male.
- Mentre è in vita vada
sempre vessato, calunniato, perseguitato, sotto il peso di molte e
gravi maledizioni, calamità e tribolazioni. E non ci sia chi lo
liberi. Amen.
- Le piaghe che Dio inviò
sopra il Regno di Egitto cadono sopra di lui. Amen.
- La maledizione di Sodoma
e Gomorra, Datan, Abiron, che per i loro peccati se li inghiottì la
terra, cadono sopra di lui. Amen.
- Le maledizioni che i
condannati lanciano nell'abisso contro Dio e contro la Madre sua
santissima e tutti i santi cadono sopra di lui. Amen.
La processione dei preti,
all'interno della chiesa, prima in un senso e poi nell'altro, si
era puntualmente conclusa. Così anche le maledizioni, final-mente. Ma
le tenebre incombevano ovunque, erano soprattutto dentro questi
spiriti che, deformati dal loro potere malato, sembravano non avere
carne né ossa e neppure respiro.
Intanto, la morte aveva
preso possesso di quel luogo e degli uomini, ora e per sempre, tutto
ormai sapeva di morte, anche l'aria, persino il silenzio. Poteva
esserci un posto migliore per ospitare uno dei tanti inferni che
abitano questo mondo? Ormai siamo al finale, all'ultimo atto di
questa sacra tragedia.
V.
Effunde super eum iram tuam.
R.
Et furor tue comprehendat eum. Oremus.
Hostium nostrorum
quesumus Domine elide superbiam et eorum contumaciam destere tue
virtute prosterne. Amen.
Pronunciata questa
maledettissima orazione, i preti -tutti insieme-, avevano spento
sull'acquasantiera, ritualmente, la loro candela tenuta fin qui
ostentatamente accesa. Quindi a voce alta, fredda, risuonante di
metallo, e sempre all'unisono, avevano scandito la condanna
definitiva.
Come si spengono queste
candele in quest'acqua santa, cosi si spenga e muoia la sua anima,
ribelle e scomunicata, e discenda nell'inferno insieme a quella di
Giuda l'apostata.
Amen. Fiat, fiat, fiat.
Nonostante ci trovassimo
lontano da Trechido, e fossero tra-scorsi tanti anni, sentivamo
ancora addosso tutto il peso di quelle maledizioni. Anche perché, ad
una ad una, come fulmini incandescenti, sembravano richiamarne
ancora delle altre, mai sazie, accompagnate dal lamento funebre
delle campane. E ogni giorno l'orizzonte ci annunciava il presagio,
persino inadeguato alla realtà,
di tutto quanto ci attendeva,
a iniziare dal vortice devastante di una tempesta che ci negava anche
un solo istante di tregua. E neanche un istante di normalissima vita.
Era la nostra maledizione,
tremenda e senza fine, che non ci con-sentiva di piangere, né una
disperata speranza da coltivare. Ancora meno ci per-metteva di
trovare rifugio da qualche parte, perché ci seguiva puntualmente
ovunque andassimo. Eravamo gli unici superstiti del villaggio, così
tra-gicamente sventurati, da dover scontare la nostra pena senza
poterne mai vedere la fine.
Il peccato di uno ricada
su tutti, aveva sancito il vescovo. Del perdono, invece, non sapeva
proprio cosa farsene.
Così abbiamo trascorso la
nostra esistenza nell'inimicizia di Dio, fatalmente
continuiamo a trascorrerla
senza mai poterla
riscattare, condannati a bruciare nel fuoco insonne delle
maledizioni.